14/07 – Signor Presidente, membri del Governo, onorevoli Colleghi, quello che è all’esame oggi dell’Aula è un disegno di legge sulle riforme non solo costituzionali ma istituzionali. È una più ampia visione di modifica dell’assetto del Parlamento, del procedimento di formazione delle leggi e di una politica di contenimento e revisione della spesa pubblica.
Nella partita delle riforme l’azione del Governo e del Partito Democratico in questi mesi ha voluto giocare da protagonista. Con l’obiettivo di un cambiamento istituzionale, un vero e proprio “rinnovamento nella tradizione” che guarda non solo all’Europa ma soprattutto al cuore del Paese.
Non è questa la sede per richiamare i numerosi Comitati di studio che sono intervenuti a ragionare sulle riforme costituzionali, dalla Commissione Bozzi nel 1983, al Comitato Speroni nel 1994, al Gruppo di Lavoro prima e alla Commissione per le Riforme poi, volute da ultimo dal Presidente Napolitano. Ma basti sottolineare che tutti i Comitati di studio finora insediati sono giunti – seppur con soluzioni diverse – all’esigenza condivisa del superamento del bicameralismo perfetto.
Nel 1982, il Presidente Giovanni Spadolini, stilando il suo Decalogo per le riforme istituzionali, individuava « il problema di complete e incisive riforme costituzionali capaci di neutralizzare le cause delle disfunzioni che troppe volte hanno paralizzato gli sforzi dei governi». Questa citazione serve solo per squarciare il velo che tanti stendono per confondere la crisi della rappresentanza con il funzionamento dello Stato: da una parte i meccanismi non sono all’altezza della modernità e dall’altra i modelli di rappresentanza non sanno più come interpretare collettivamente i bisogni personali. Oggi, trent’anni dopo, il peso di tale problema è stato raccolto dal Governo Renzi che si è fatto carico di promuovere un disegno di legge costituzionale che superi il bicameralismo perfetto, al fine di velocizzare l’iter legis e contenere i costi della spesa pubblica, con l’abolizione di organi ed enti ormai superati come il Cnel.
La sfida più grande del nuovo Senato sarà allora quella di integrazione delle Autonomie, che riproduca nella Camera Alta la suddivisione vari livelli degli enti territoriali come all’art. 114 della Costituzione: se la Camera dei Deputati dovrà rappresentare la nostra forma di governo, il Senato delle Autonomie dovrà rispecchiare la forma di Stato.
Un “pluralismo necessario” di voci, che già nell’Assemblea Costituente si ricercava nella scrittura dell’art 57, nella definizione di quel Senato «a base regionale».
Un Senato delle Autonomie quindi, capace di dialogare verso il basso con gli enti territoriali, ma anche verso l’alto con le istituzioni europee, dove siamo protagonisti oggi con la Presidenza italiana del semestre europeo, e fin dalle scorse elezioni europee del 25 maggio.
Siamo dunque nella fase in cui si delinea l’approdo alla prima tappa delle riforme costituzionali e il pensiero corre, necessariamente, alle parole pronunciate dal Presidente Giorgio Napolitano nel suo discorso alle Camere in occasione del suo insediamento più di un anno fa.
La rielezione del Presidente della Repubblica non trova precedenti nella storia, ma è stata necessaria per superare il difficile stato di impasse, creato dal risultato elettorale sì, ma anche da un atteggiamento definito come irresponsabile e di chiusura da parte delle fazioni che non hanno inteso creare le premesse per la formazione di un governo.
Parole severe, le sue, chiare e di richiamo alla responsabilità di tutti noi parlamentari e a quelle parole devono essere sempre riferite le esperienze di governo successive, per l’eccezionalità degli impegni da affrontare. In definitiva in quelle parole sta il motivo per il quale il governo ha presentato un Disegno di Legge Costituzionale, a fronte di 53 disegni di legge depositati al Senato, poiché, e dobbiamo affermarlo chiaramente, queste riforme c’entrano con la vita dei cittadini e delle imprese. Se in questa aula c’è chi pensa che le riforme “…sì, certo, sono da fare ma ai cittadini interessano le cose reali…” rifletta sul ruolo della politica.
La politica deve dare risposte concrete e puntuali, ma in un Paese bloccato quale è l’Italia oggi, la politica deve trovare la forza di individuare e correggere quegli elementi che rendono sproporzionati i tempi delle soluzioni rispetto ai tempi dei problemi.
La prova che l’Italia è un Paese bloccato sta per esempio nel fatto che la spinta alla riforma di tanti mondi antichi che il Governo Renzi sta aggredendo, raccoglie approvazione e resistenze, ma non riesce a generare moti di autoriforma. Tutti sono in attesa di vedere se la politica (e Renzi oggi ci sta mettendo la faccia per tutti che uno lo voglia o no) sarà all’altezza delle sfide che riguardano sé stessa.
La grande spinta che il Governo Renzi ha dato al processo riformatore resta un elemento oggettivo, un merito e una prova della convinzione e del coraggio che si sta profondendo per restituire autorevolezza alla politica.
Ritengo quindi che il momento di riforma che ci si prospetta davanti possa essere un buon momento – si è detto – di “rinnovamento nella tradizione”, una vera e propria rivoluzione nel segno però di una manutenzione costituzionale più che di una riscrittura della Carta. In definitiva una modernizzazione della nostra democrazia.
Interventi precisi, mirati, che assicurino rapidità, efficacia ed efficienza all’azione parlamentare. Le riforme devono servire per migliorare l’assetto istituzionale, innanzitutto per superare le prassi degenerative degli ultimi anni, dai decreti-legge omnibus, alla continua posizione della questione di fiducia da parte del Governo (spesso su testi “blindati” con maxi-emendamenti), all’abuso di decreti-legge anche quando non sussistono i requisiti di necessità e urgenza.
Mi permetto ora, di proporre alcune valutazioni politiche in considerazione della portata del passaggio che sta per compiersi in questa Aula. Se abbiamo ascoltato più volte appelli a separare la contingenza del contesto politico dai contenuti della riforma, è inutile nascondersi quanto questa contingenza pesi sulle valutazioni e sugli atteggiamenti che si sono misurati in queste settimane.
Nonostante ciò il punto di incontro nel confronto tra Governo, Forze Politiche e Parlamento va considerato positivamente per il suo valore, sia di contenuti che di sintesi. Mantenere al centro il Parlamento, senza toccare le parti relative al governo è un punto qualificante della riforma che non muta sostanzialmente gli equilibri tra i poteri e le garanzie, evidenziando primariamente la volontà di dare maggiore efficienza allo Stato.
É sproporzionato e strumentale l’evocare derive autoritarie, quando una Camera basta per esprimere la fiducia al Governo, per legiferare e per votare il bilancio dello Stato. Ma una camera non basta per rendere l’articolazione istituzionale e territoriale dello Stato italiano, corresponsabile di un processo di armonizzazione dell’insieme delle leggi nazionali e regionali che devono generare in modo combinato, opportunità e tutele.
In altre parole oggi non si tratta di discutere quale sia il ruolo del Senato riformato in rapporto al Senato di oggi entro il quale stiamo svolgendo questa decisiva discussione, bensì discutere in che modo, a partire da un sostanziale monocameralismo, si struttura una utile presenza di una camera delle autonomie di cui pare ovvia la presenza perché adeguata alla configurazione dello stato tracciata dall’attuale Carta Costituzionale.
Questo stiamo facendo oggi, consci che subito dopo avremo la responsabilità anche di affrontare le regole con le quali si elegge la Camera, posto che non agiamo in condizioni di vuoto legislativo, cioè senza una legge elettorale in vigore, ma altrettanto coscienti del fatto che la legge elettorale deve fare uscire dalle urne, cioè legittimare, una maggioranza politica alla Camera in grado di esprimere un governo.
Peraltro questo accade regolarmente, per Regioni e Comuni senza che vi siano state o vi siano oggi valutazioni preoccupate sullo spessore democratico di questi livelli. Prova di ciò sono la passione e la partecipazione che attraversa tutti i partiti e gli schieramenti che affrontano elezioni comunali e regionali. Anzi della stabilità raggiunta dalle istituzioni locali come regioni e comuni se ne avrà contezza proprio nel Senato riformato che da questa sua natura di secondo grado trarrà grande incisività.
CONSIDERAZIONI FINALI
Una considerazione finale va fatta, allora: troppi tentativi sono stati vani, troppi i lavori di Comitati di Studio rimasti negli scaffali polverosi della scienza costituzionalistica italiana, troppe le riforme mancate, troppe le riforme approvate ma mai attuate, e basti pensare solamente all’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 che ha previsto – ancora oggi disattesa – «la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali».
L’auspicio allora è che questa riforma realizzi finalmente quel “costituzionalismo multilivello”, che operi su un nuovo assetto del Titolo V, una ridefinizione del procedimento legislativo anche in ragione della normativa europea che il Parlamento recepisce ogni anno, e che il giorno di questa settimana nel quale l’approveremo, possa essere considerata la data di un primo traguardo, la data di un nuovo inizio e non più dell’ennesima occasione mancata.